marco valenti scrive

marco valenti scrive

30 maggio 2011

andare a Genova con il treno










Da Roma a Genova in treno in una mattina di maggio.
Sole pieno e lato doppiamente ottimista del treno.
Perché sono seduto nel verso per cui le cose ti vengono incontro, invece di fuggire via, e perché sono a sinistra, lato finestrino, e quindi vedo continuamente scorci di mare Tirreno.
Lampi di azzurro tra le campagne.
A Pisa sosta sufficientemente lunga per una sigaretta: pregusto.
Posso aspettare serenamente, poi, perché mi muovo verso una città che amo e dal finestrino è tempo di papaveri e di erbe che, lentamente, virano al giallo della mietitura a venire.
Un viaggio così ti fa capire, se sei predisposto, il tuo bisogno insoddisfatto di spazi aperti.
Magari camminare fuori città.
Intanto il giallo carico delle ginestre mi consola da un libro su cui avrei parecchio da dire e su cui, solamente forse, interloquirò con chi lo ha scritto; tanto, inesorabilmente, la fermata di Pisa si avvicina.
Genova mi accoglie bene, come sempre; le riunioni di lavoro vanno come debbono andare; il fatto che ci siano belle persone che incontro da parecchi anni facilita le cose e le rende, comunque, meno gravi.
Nella parte leggera di un soggiorno comunque di lavoro attento un invito a ce3na a “la buca di S, Matteo” in via Chiassone, mi stupisce con acciughe ripiene con vellutata di gamberi e trofiette con crema di pinoli e capesante.
Vermentino sardo e piacevoli chiacchiere che, per fortuna, salpano quasi subito da rive, e secche, di lavoro verso piacevolezze d’altro mare.
Ancora di bello, nell’essere un frequentatore seriale, abituale, delle stesse città è un albergo, anche, che riconosce, che non ha bisogno del documento di identità, in cui puoi avere quel minimo di sensazione domestica. Nel caso di Genova è il Metropoli, catena Best Western, in Piazza delle fontane marose.
La stazione di Porta Principe mi vede in attesa, non breve, nel pomeriggio del giorno dopo: è lo scotto che spesso pago per la mia organizzazione che antepone gli interessi del mio lavoro ai miei. Preferisco l’ozio stanco, affaticato, di una attesa in una stazione ma essere ragionevolmente sicuro di poter fronteggiare al meglio un eventuale protrarsi della riunione di lavoro. Sto più tranquillo.
Comunque il viaggio di ritorno è ancora finestrino sul mare.
Stavolta lato destro: si scende.
Va benissimo così.
Sono stanco ma torno a casa da una città a cui voglio bene.
Da Genova a Roma in treno: sole pieno in un pomeriggio di maggio e, dopo Orbetello, un tramonto struggente nel mare.
Attesa, solamente, di stendere le ossa a casa.

26 maggio 2011

bottiglie, bottles, bouteilles



Costretto a casa,
voglioso di disegnare, si misurava con preziose bottiglie dello scorso millennio che ho il privilegio di avere.
Impazziva con la luce che si rifrangeva nelle tante sfaccettature del cristallo.
Questo era Piero, quando era, ancora, da qualche parte, Piero.

Chi sa le bottiglie apprezzerà; meno gli altri.

L'aria si fa rarefatta in questa tag e altrove.
Si sta come si può.
enjoy.

23 maggio 2011

Venezia (13-15 maggio 2011)













Dal 13 al 15 maggio sono stato a Venezia per partecipare all’incontro annuale degli Anobiiani; per chi non lo sapesse Anobii è una comunità di lettori su internet (per info: www.anobii.com); sono stato molto bene per compagnia, attività, amicizie vecchie e nuove.
Raccontato il fatto che ha mosso il mio essere andato lì debbo dire che se questo post fosse stato scritto a penna avrebbe infinite cancellature, sottolineature, rimandi, ripensamenti. Questo perché vorrei provare a parlare di Venezia.
Ero già andato, più volte, per diporto e per lavoro, ma di Venezia, oltre la bellezza singolare, non mi ero mai fatto una idea propria; stavolta, vista la straordinaria offerta proposta da chi ha organizzato il raduno, sono tornato con la testa piena di immagini diverse, di suggestioni e di pensieri nuovi.
Forse dopo aver visto e avuto belle spiegazioni su squeraiol e tajapiera, (http://sites.google.com/site/venezianobii/home/percorso-squerariol-e-tajapiera)
guardi le gondole con altri occhi e decidi di vedere la città cullato da una gondola; senti solo lì “Oi oi, voga!” che è il modo del gondoliere di farsi sentire ad un incrocio.
Così le pietre, che siano bestie di marmo schiacciate in un campanile o mercanti agghindati da mori, ma magari anche la lastra martellinata di un citofono in un palazzo, danno di loro un sapore più compiuto.
Ti perdi, a volte non ostante i veneziani, per Calle e Sottorive e malgrado le scarpe piene di piedi sei felice di tornare sui tuoi passi per vedere ancora e ancora.
I balconi di legno sopra i tetti o i giardini rigogliosi e improvvisi, imprevisti a volte; arrivare alla stazione ferroviaria con l’uscita più bella del mondo, o col vaporetto dal Lido incontrare le isole che ti chiamano; bighellonare dal ghetto, dopo pioggia e nel vento freddo, nel Sestriere Cannaregio, fino a sporgersi lì dove la città inevitabilmente finisce e vedi mare alzato dal vento e un treno come il tuo che arriva.
Capire con chiarezza solo in quel momento che la città, solo lei, ha un limite preciso che è il mare ovunque.
Vedere scorci che pare Genova e altri che è diversa anche da se stessa.
Pensare a “le città invisibili” e che, forse, tutto nasce e tutto torna in quella città perché ce ne sono tante per quanti sono i modi di girarla e scoprirla.
Mangiare bene in posti dove non vanno i turisti ma i veneziani e commuoverti di fronte alla terza porzione del miglior fritto da anni (grazie Osteria Ruga Rialto: di cuore).
Essere di buon umore, in piacevolissima compagnia, e bere del buon bianco fermo.
Ripensandoci spesso da quando sono tornato a casa ho pensato che “Venezia è bella E ci vivrei” con piacere ed ho capito perché: finalmente, comincio ad immaginarla.
[dedicato agli amici di anobii e del corna; loro, se leggeranno, sapranno.]

17 maggio 2011

Chiamerà Livia


Capiterà.

Ovvio che capiterà: ora vi spiego.


Chiamerà Livia.


È sua sorella, nella realtà, ed ha cinque anni meno di lui: è il nome che gli è rimasto appiccicato addosso. È diventato il nome che da alle cose.


Perciò chiamerà Livia quando si sveglierà, quando avrà bisogno di aiuto per andare a fare pipì; pronuncerà il suo nome per indicare un piatto di verdura cotta, o piuttosto un fazzoletto.


Dirà Livia, con voce tonante, se avrà mal di pancia e lo dirà appellando ciascuno e, a volte, anche il nulla. Parlerà con nessuno, a volte, rivolgendosi a lui come Livia.


Succederà anche di notte, se si sveglierà e non saprà dove si trova. Accadrà quando vorrà andare a casa, in una casa che ricorda, forse immagina, oppure vagheggia: vorrà andare da Livia.

Assecondatelo finché potete perché non è cattivo, quasi mai.


È confuso come chi ha l’Alzheimer dentro ormai da troppo.


Livia i suoi bisogni primari, i suoi ricordi, un nome comune di cosa, un appello.

Scorderà anche lei. Questione di tempo. Sostituirà Livia con parole ancora più confuse e sempre meno pertinenti.


Prendetevene cura voi che sapete come farlo.

Mi fido di voi.


Io non ne ho più.


emmevù (per chiuderla qui)

12 maggio 2011

in fondo una Vespa...

ma poi, alla fin fine... ci parliamo sopra continuamente, cerchiamo ragione e ragioni.
Tuttavia fare Roma Porto Ercole con tuo figlio felice alla vigilia di Pasqua, sapere che ce la puoi fare, bene, malgrado tu sia inequivocabilmente un cinquantenne, e divertirvi pure se la giornata è, atmosfericamente parlando, un po' di merda....
non ha prezzo!
(per tutto il resto, chi crede, ha la Mastercard).
Sorrido.
La foto che mi ha fatto mio figlio è bellissima.
Vespizzatevi: ne vale la pena.

9 maggio 2011

Imperdibile conversazione davanti ad un giradischi



Potremmo chiamarla “A reported speech on new and ancient technologies” oppure “Sul vil vinile”, o anche “Generazioni a confronto: la rivincita dei cinquantenni”.
Tutto rigorosamente vero.


Due maschi sono in casa: di fronte uno stereo, compatto, con il quale è possibile convertire in una chiave USB musica proveniente da CD, ma anche da musicassette e da dischi.


Per dischi si intendono vinili a 78, 45 o 33 giri al minuto.


Un maschio ha cinquanta anni; l’altro diciassette. Per comodità nella conversazione riportata li chiameremo, rispettivamente, 17 e 50.


Questione di privacy.


17: Quindi con questo puoi convertire in mp3 tutta la musica che hai?


50: Si. Basta mettere una chiavetta e ci registri sopra da qualsiasi fonte sonora, selezionandola prima.


17: Pure i dischi? Ma tu ne hai?


50: Parecchi. Una volta c’erano solo quelli.


17: Me ne fai vedere uno?


Il cinquantenne torna con un 33 giri della Polygram, Making movies dei Dire Straits, 1980 e lo porge al diciassettenne.


17: Lo conosco. Come si apre?


50: Sfilalo.


17: Ah: ecco. Ma ci sono i testi!


50: Si. Così mentre ascoltavi potevi seguire il testo.


Il coperchio del piatto è già alzato e lo stereo è stato selezionato sul giradischi. Il diciassettenne studia il disco maneggiandolo con estrema cura.


50: Mettilo.


17: Da che parte è la musica?


50: Tutte e due. Scegli quale parte ascoltare prima.


17: Tutte e due?


50: Dai: mettilo.


Appoggia il disco infilandolo nel perno centrale e il disco comincia a girare.


17: Gira! …Che devo spingere?

3 maggio 2011

libertà

Vorremmo tutti far parte di qualcosa.

Quelle cose di cui vale la pena far parte e che ti fanno da casa, da luogo da difendere, da ideale per cui spendersi e, magari (o anche no) morire.

Vorrei far parte di un intero, o di un club, o di una massoneria di fratelli.

Della mafia no perché un po’ mi schifo e un po’ ho paura.

Una cosa in cui credere, forse una Patria che c’era e che ci hanno tolto.

(Rendetecela).

Oppure una identità.

Ragionando sul termine identità si arriva a uguaglianza.

Magari una parola troppo grossa.

Meglio dire pari opportunità.

Più moderno e adeguato.

Vorrei un luogo, non fisico necessariamente, in cui esercitare la mia libertà.

Appartenendovi.

Lo dico perché ad ella, la libertà intesa come libertà, mi ostino ad appartenere.

Questo è.