le cose ci sono, sono lì a rispondere ai nostri sguardi più o meno sicuri, alle domande che non facciamo e nemmeno sappiamo, a salvarci e a condannarci: sempre e pur tuttavia solo cose.
Sarebbero chiare se noi non fossimo così confusi. Non sono le cose a comandare ma l'atteggiamento che abbiamo noi di fronte ad esse. Come ci poniamo, come scegliamo se parlare o meno e cosa dire e cosa tenere per noi e non condividere.
Cosa lasciare andare.
Il 12 febbraio del 2010 ha nevicato a Roma ed è stata una cosa piuttosto rara.
Ci siamo interrogati su quante nevicate abbiamo visto cadere; sono nate piccole dispute se avesse nevicato nell’85 piuttosto che nell’86; qualcuno ha ricordato il motivetto di una canzone cantata da Mia Martini, la nevicata del ’56.
Nel 1956 io non ero nato ma a Roma si verificarono delle nevicate che, per intensità e durata, rimasero storiche: nevicò il 2, il 9, il 18 e il 19 febbraio e per diversi giorni la temperatura rimase sotto lo zero.
Mi sono ricordato, invece, il giorno della Befana del 1985 quando sono salito sul mio ciclomotore con la macchina fotografica a tracolla e sono andato in centro a scattare foto in bianco e nero.
Nikon FM, tutta manuale, tre obiettivi (originali) da 35, 50 e 135 millimetri.
Un freddo cane.
Dopo pochi giorni a stampare a casa di un amico: altri tempi, altra epoca.
Ho cercato e trovato qualche stampa di quei rullini.
Ho fatto tre cose per chi segue il blog.
Ho passato allo scanner qualche foto; ho trovato un link con lo storico di tutte le nevicate a Roma dal 1788; ho trovato “la nevicata del ‘56” su youtube.
Ti ricordi una volta
Si sentiva soltanto il rumore del fiume la sera
Ti ricordi lo spazio
I chilometri interi
Automobili poche allora
Le canzoni alla radio
Le partite allo stadio
Sulle spalle di mio padre
La fontana cantava
E quell'aria era chiara
Dimmi che era così
C'era pure la giostra
Sotto casa nostra e la musica che suonava
Io bambina sognavo
Un vestito da sera con tremila sottane
Tu la donna che già lo portava
C'era sempre un gran sole
E la notte era bella com'eri tu
E c'era pure la luna molto meglio di adesso
Molto più di così
Com'è com'è com'è
Che c'era posto pure per le favole
E un vetro che riluccica
Sembrava l'America
E chi l'ha vista mai
E zitta e zitta poi
La nevicata del '56
Roma era tutta candida
Tutta pulita e lucida
Tu mi dici di sì l'hai più vista così
Che tempi quelli
Roma era tutta candida
Tutta pulita e lucida
Tu mi dici di sì l'hai più vista così
Che tempi quelli.
Si cerca, per quanto possibile, di essere polite, politically correct, ed in nome di questa sorta di codice etico genetico si regolano i propri comportamenti ed argomenti. Non mi sottraggo, ovviamente, riconoscendomi in un medio progressismo e nella liberalità.
Pertanto concordo, con convinzione, con affermazioni tolleranti e buoniste; vivo mediamente solidale e cerco una strada legata al buon senso ed a logiche ecologiche, solidali; mi provo, per quanto possibile, a riconoscermi in un insieme che mi conforti per idee e modus operandi e, fin quando possibile, liberamente esercito il sacrosanto diritto a detestare le espressioni altre – troppo altre – rispetto alle mie.
Mi schiero, tuttavia, volta per volta e non a prescindere.
La censura, anche quando “di buon senso”, per esempio mi irrita, mi provoca una sensazione di fastidio e di impotenza.
Lunga premessa, me ne rendo conto, per affrontare una cosa piccolissima.
Però, per dritto o per storto, mi sta a cuore dirla.
Vedo pochissimo la tivvù ma navigo abbastanza per non poter avere fatto a meno di imbattermi nella vicenda di pochi giorni fa, dove un signore, tale Beppe Bigazzi, (http://it.wikipedia.org/wiki/Beppe_Bigazzi) è stato allontanato da una trasmissione televisiva.
La colpa?
Ha detto che ha mangiato carne di gatto, da ragazzo, ed in una trasmissione culinaria ha raccontato di tecniche per frollarne le carni prima della cottura.
Levata di scudi, accusa di istigazione a delinquere contro una specie domestica e pertanto protetta, irritazione e disgusto da parte di parecchi.
Facile e inevitabile epurazione. Molto facile.
Caso risolto: elementare Watson.
Il gioco è fatto e la televisione è, pertanto, democratica e progressista.
Forse perfino oltre le aspettative delle associazioni ambientaliste.
Mi dicono che nelle regioni dell’estremo est mangino i cani, mi dicono che in Italia – durante la guerra – non si trovavano gatti in giro. La prima notizia mi viene dalla letteratura; la seconda notizia mi è cronaca di anziani della mia città.
Intendo dire che è una cosa che so per certa.
Se la so io mi sa che è vera: credetemi.
Una generazione ottuagenaria si è nutrita, anche, di carne di gatto in assenza di altro.
Pur convenendo sulla inopportunità delle parole di questo tale in una trasmissione culinaria per massaie (io sono andato a cercarle per sentirle: lo hanno fatto tutti?) gli esiti mi sembrano, oggettivamente, straordinariamente severi.
Lo dico perché non lo dice nessuno.
Aggiungo che mi accontenterei della metà di questa indignazione e di metà di questa severità in numerosissimi altri casi che reputo, oggettivamente, straordinariamente più seri e gravi.
Spero non si voglia ascrivere l’accaduto tra le grandi vittorie del progressismo animalista.
Magari accomodandosi su altro...
Con l’intima tenace speranza di non essere frainteso concludo con: viva gli animali, i gatti e i cani, i criceti e i canarini, i pesci rossi e le tartarughe.
La vita è quello che ti capita mentre sei intento a fare altri progetti; per vari motivi esco di rado, in questo periodo.
Però succede che esca. Se capita una felice compagnia, rumorosa e goliardica restando nel buon gusto, si gode.
Se ci si mettono, oltre le persone giuste (cosa non scontata), il locale perfetto ed una cucina felicemente romana senza strafare si raggiunge l’ottimo.
Allora ciao a chi parte per un paio d’anni per l’America senza essere migrante; ciao, e a presto vederci, all’amico che festeggia la promozione (giusto riconoscimento a merito e tenacia); ciao ai colleghi che sono meglio di altri e meritano tutte le attenzioni e tutto l’affetto.
Viva l’ottundimento controllato del vino rosso, tannico ma sincero.
Si gode come si può ma bene. Si resta grati a tutti.
In questo blog non si fanno “marchette” ma si lasciano suggestioni anche enogastronomiche. Sono nato e vivo a Roma (con i suoi pro ed i suoi contro) e la Trattoria Vecchia Roma è un pro.
Per non parlare degli amici.
Ho scoperto la Trattoria Vecchia Roma grazie agli amici di cui dicevo. è a Roma, Via Ferruccio 12 B/C, zona Piazza Vittorio, Esquilino, dal 1916 (era una cantina, ho saputo: perciò semi interrata). Ambiente rustico, tovagliette di carta con scritto il menu, se vedete come me portatevi gli occhiali da vicino (poca luce è la scusa), caldo e confortevole. Si possono gustare i piatti tipici della cucina romana spendendo giusto, e vi consiglio di assaggiare la specialità: i bucatini all'amatriciana mantecati in forma di pecorino. Si tratta di un'ottima amatriciana che viene mantecata davanti ai vostri occhi dentro una forma di pecorino scavata. Buonissima. Ingredienti di qualità.
Esiste, a Roma, una diatriba se la ricetta debba prevedere bucatini o spaghetti: sono le dispute che amo
Lascio due ricette piluccate su internet: la mia, dopo aver girellato nel web, è ininfuente.
Trattoria Vecchia Roma via Ferruccio 12 B/C a Roma. Meglio prenotare (tel. 06-4467143) perché è sempre piena: il turno di chiusura è la domenica.
- 400 g di pasta;
- 400 g di pomodori;
- 100 g di guanciale stagionato;
- 60 g di pecorino stagionato;
- vino bianco secco;
- sale e pepe;
- peperoncino (facoltativo);
Preparazione: tagliare il guanciale a cubetti e cuocerlo a fuoco basso in una padella antiaderente di 28 cm, quando il grasso è diventato trasparente aggiungere mezzo bicchiere di vino bianco secco e far evaporare, aggiungere quindi i pomodori tagliati a pezzetti e il peperoncino e cuocere per 5 minuti a fuoco vivace. Lessare la pasta in abbondante acqua salata, quindi unirla al sugo insieme al pecorino grattugiato, mescolare bene per condire uniformemente la pasta e servire.
SPAGHETTI ALL’AMATRICIANA
Sbollentate per pochi secondi i pomodori in acqua in ebollizione quindi passateli sotto l'acqua fredda, pelateli e tagliateli a filettini, privandoli dei semi.
Se utilizzate i pelati,sminuzzateli prima con le mani sfilacciandoli.
Tagliate il guanciale a mattoncini e mettetelo in una padella preferibilmente di ferro con l'olio e poco peperoncino.
Fate rosolare a fuoco vivace per qualche minuto fino a quando il guanciale avrà preso colore.
Bagnate con il vino e, non appena è sfumato, togliete dalla padella i pezzetti di guanciale e teneteli da parte possibilmente in caldo.
Mettete nel fondo di cottura i pomodori, poco sale e fateli cuocere a fuoco vivace per qualche minuto.
Rimettete in padella il guanciale, dopo un altro minuto di fuoco il sugo è pronto.
Nel frattempo avrete messo a cuocere la pasta, scolatela al dente e versatela in un recipiente possibilmente preriscaldato.
Spolverate la pasta con la metà del pecorino e versateci sopra la salsa ben calda.
Mescolate bene e servite la pasta ben calda passando a parte il resto del pecorino.
SELLERIO Titolo originale: L'art de se taire, principalement en matière de religion Traduttore: Chiara Bietoletti Lingua Originale: francese Collana: Il divano ISBN: 88-389-0569-X Pagine: 112
L'art de se taire fu pubblicato a Parigi nel 1771. Un trattato sulla tematica del silenzio che occupa un notevole spazio «delle opere che dettano il comportamento del corpo e del linguaggio..... Con questo trattato l'abate Dinouart voleva forse concludere la lunga serie di quelle arti della parola che costellano la retorica dell'età classica? O voleva invece fissare definitivamente il concetto stesso di retorica? Niente di tutto ciò. L'arte di tacere è una paradossale arte della parola, un altro capitolo della retorica, della quale ha mantenuto tutte le finalità pratiche».
Se relegato ad una lettura circostanziata a ciò che, oggettivamente, è si tratta di un felice trattatello di fine settecento, grazioso, lezioso quel che serviva alle pruderie dell'epoca, ben scritto, "carino", "curioso". Punto. Ho provato a leggerlo centellinandolo perché ad ogni passo trovavo grande divertimento intellettuale. Provavo godimento intellettuale perché lo leggevo con occhi moderni. Provo a spiegarmi.
Oggi, cosa insolita, a Roma nevica. Mi sono alzato pensando a quale musica avrei voluto mi accompagnasse e la ho trovata. Ci sono musiche che potrei ascoltare infinite volte. In cuffia, o a volume alto, o in sottofondo mentre faccio il letto o spazzo per terra. Sono pezzi che fanno parte di me. Credo che ognuno di noi ne abbia di proprie: Keit Jarrett in questo concerto è un monumento. The Koln Concert su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=wivo94ylmhE&feature=related Sono convinto che questa ora e sette minuti di performance improvvisata abbia segnato molti musicisti da quel 1975 a oggi. Qualche informazione di seguito. Si tratta di un'improvvisazione solista eseguita all'Opera di Colonia nel 1975. È considerato il più famoso album di jazz solo, con 3 milioni e mezzo di copie vendute. Un critico ha definito The Köln Concert un capolavoro "che scorre con calore umano". Il concerto a Colonia faceva parte del suo tour europeo solista iniziato nel 1973. Precedentemente, Jarrett aveva suonato in formazioni di tre o quattro elementi, poi si era aggregato al gruppo di Miles Davis. Per richiesta di quest'ultimo aveva abbandonato il piano acustico per passare al piano e l'organo elettrici, cosa che non gli piaceva. Il tour da solista fu quindi un ritorno alla sua vena artistica più naturale La registrazione del concerto è divisa in tre parti, che durano rispettivamente 26, 34 e 7 minuti. Originariamente il disco fu rilasciato come LP, perciò la seconda parte fu divisa in ulteriori due parti, chiamate "IIa" e "IIb". La terza parte, chiamata "IIc", è l'encore eseguito alla fine del concerto. Un importante aspetto di questo album è la capacità di Jarrett di eseguire una gran numero di improvvisazioni su una uno o due accordi per periodi piuttosto prolungati di tempo. Ad esempio, nella parte I, Jarrett esegue ben 12 minuti di improvvisazione utilizzando praticamente due soli accordi, il la minore settima e il sol maggiore. A volte lo stile è calmo, a volte affine al blues, a volte vicino al gospel. Per gli ultimi sei minuti della parte I inoltre rimane su un tema sull'accordo di la maggiore. Nella parte IIA, gli ultimi otto minuti si sviluppano sul re maggiore, mentre nella parte IIB i primi sei minuti sono un'improvvisazione sull'accordo di fa diesis minore. Fin dall'uscita dell'album, furono pressanti le richieste su Jarrett di pubblicare una trascrizione della musica. Inizialmente Jarrett si rifiutò di soddisfare la richiesta, perché disse che: 1. il concerto era completamente improvvisato e secondo lui "doveva andarsene così come era venuto"; 2. alcune parti del concerto non sono possibili da trascrivere, in quanto completamente fuori dal tempo metronomico. Alla fine Jarett cambiò idea, ma pose la condizione di poter controllare tutte le fasi del processo di trascrizione. Successivamente è stata pubblicata anche una trascrizione per chitarra classica, dovuta a Manuel Barrueco. Keit Jarrett su wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Keith_Jarrett
Gabriele si è laureato, Lorenzo ha smesso gli studi dopo il liceo: tutti e due lavorano, entrambi hanno compagne e prole.
Bimbi e mamme in casa, una vacanza (l’ennesima) in comune.
Lorenzo e Gabriele su un prato, di notte, di nuovo sdraiati a guardare il cielo pieno di stelle d’estate. Estate: rumore di grilli e di niente, tiepido di notte di vacanza. Pare sempre la notte del grande cocomero.
“Oh, Gabri?”
“Eh?”
“Guardi le stelle e non riesci a non pensare: se non ci fossero i grilli sarebbe il silenzio più totale. La quiete autentica. Non ti pare?”
“Ci ho sonno, Lele, non incominciare: dieci minuti e rientro in casa”.
Pausa di silenzi, di grilli, di pensieri estivi.
“E’ che penso… ma parlare o stare in silenzio sono scelte di pancia o di cervello?”
“Lele?”
“Oh?”
“Nel caso tuo il cervello c’entra poco. Parli di continuo, pure quando faresti meglio a stare zitto. Parli troppo perfino su face book e ho detto tutto!”.
“Gabri? Mi viene. Poi, magari non mi capiscono, ma non riesco a non dire quello che penso”.
“Vale la pena dire solamente se davanti hai orecchie che sanno ascoltare”.
Quando scrivi in un blog ti trovi in una comunicazione a una via sola.
Salvo feedback, commenti (ne vorresti sempre di più perché “ti fa dialogo”), segnalazioni ti trovi a parlare un po’ da solo. Tuttavia ti provi a fare qualcosa che non sia un “caro diario” ma altro.
Provi, tra le pieghe del tuo vissuto, a lasciare ombre di oggettività.
Orbene, la tag “Al come alzhaimer” riflette il degrado mentale di mio padre, Piero, e prova a dare conto e ragione di una malattia bastarda senza pietismi facili e provando a raccontarla con quel minimo di disincanto perfino umoristico (o, almeno, leggero) che, in determinate situazioni ti salva la pelle (leggasi il cervello).
Provi a rendere oggettivo e, speri, interessante una cosa piuttosto privata. Resto convinto della scelta anche se, credo, diraderò i post dedicati ad Al.
Anche perché i post che invio hanno finora sofferto tutti, chi più chi meno, di un ritardo di fase rispetto alle condizioni di Piero.
Racconto cose passate mentre le nuove incalzano.
Perbacco se incalzano.
Al è più svelto e più bastardo delle mie previsioni.
Veloce come un piano inclinato. Nel senso che accelera (per chiarezza).
Oggi mi sono accorto di un fatto e ve lo voglio raccontare.
Mio padre è lo stesso de “il disegno di Piero” (altra tag) e ha una mano benedetta dal cielo. Ha sempre disegnato e, finché ce ne è, disegnerà.
Ha meno autonomia e perciò, uscendo meno, spesso riproduce disegni e foto da riviste o libri. Oggi, dalla impareggiabile National Geographic,si riproponeva di riprodurre una foto splendida di un gambero di fiume.
Ragioni di copyright non mi fanno postare la foto originale: è nell’ultimo numero (bellissimo come sempre).
È uscito fuori un bel disegno, a tratti inquietante, che non è il gambero della foto.
Gli occhietti sono più vicini, manca un pezzo del corpo, le due chele vanno un po’ a casaccio: un gambero scombinato che verrebbe schifato dalla società dei gamberi di fiume.
Novello Quasimodo.
Abbiamo parlato un po’, per capirci entrambi.
Ci ho messo del tempo, arroccato a difendere le postazioni delle conoscenze minime imperdibili e scontate, e poi ho capito.
Una illuminazione.
Il punto è nella memoria delle cose.
Mi spiego.
Tu puoi avere una mano di Dio (e lui la ha) ma se non dai il nome giusto e associ il ricordo corretto a una cosa la riproduci… a prescindere.
Mio padre non ha disegnato un gambero di fiume.
Ha riprodotto dei segni.
Il concetto, il ricordo,del gambero non lo ha più. Tutto, a questo punto, si fa astratto.
Il gambero non si ricorda più che cavolo sia. Ha perso totalmente il concetto di gambero.
Ricapitolo e provo a essere più chiaro con un esempio.
Se dici ad un tuareg di riprodurre l’immagine di un pinguino ma questi non lo ha mai visto né mai studiato, e per di più non lo riconosce come animale, riprodurrà dei segni che per lui non hanno significato nella propria memoria.
Non ne riconosce le parti anatomiche né il tutto. Disegnerà “un coso”.
Becco? Potrebbe essere una proboscide. Proboscide? E a che serve? È solo una protuberanza. Pertanto deformabile. La nostra memoria è anche visiva, certo, ma vive di associazioni tra vista e ricordo e nozione.
Mi ricordo di aver visto un pinguino, o un gambero, e so cosa è.
Quindi lo riproduco avendo in mente uno schema “soggetto predicato complemento”.
Al glielo ha tolto e Piero si muove a luce spenta.