Ho visto un servizio sul dopo terremoto in Abruzzo nel quale intervistavano un ragazzo, giovane, che nella tragedia aveva perso le sorelle, Giusy e Jenny. Cercava, tra le macerie della casa, alcuni oggetti personali che erano appartenuti alle due ragazze: piccole cose, un giocattolo particolare, il telefonino che lui le aveva regalato, oggetti personali di uso quotidiano.
Ecco: tutto qui. Ma per chi, come Paolo ed io, ha impiegato tanto tempo a interrogarsi e scrivere “Un senso alle cose” e ne sta provando a fare un blog non è indifferente.
Ecco l’incipit del romanzo come spunto per pensare…
“La fine dà senso alle cose.
Il tempo, la durata della loro costruzione, della loro esistenza,
ne stabilisce il valore.
Si tratti di un repentino colpo di fortuna
o di un lungo e faticoso lavoro,
le attività e le passioni dell’uomo valgono perché in stretta relazione
con il loro limite.
Con la nostra comprensione della loro durata.
E più ancora con l’esito certo dell’esistenza dell’uomo.
Non si scappa.
La precarietà è sorgente d’ogni emozione.
Delle cose belle di questa vita.
Tutto fosse eterno, quale gusto ci sarebbe a capire?
Non fosse per la morte, per la gioia di sfuggirle ogni giorno,
la portata di certi piaceri sarebbe priva di senso.
E’ così.
Non so immaginare il colore di una vita senza fine.
L’eternità è concepibile solo perché la biologia
ci costringe a un limite,
per di più imprevedibile.
La morte fisica è la chiave di tutto.
Fossimo certi di non morire, quale valore avrebbe un calendario?
Quale i ricordi?
Emmevù (e anche Piesse)
grazie per aver dato l'occasione di fermare i pensieri e di (ri)leggere il più bell'incipit che io ricordi.
RispondiEliminagrazie a te per le belle parole, sempre, sul nostro scrivere
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