marco valenti scrive

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19 ottobre 2020

Quel che penso di "Le città invisibili"

 



LE CITTA’ INVISIBILI

Romanzo di Italo Calvino (1923 – 1985)

Prima edizione EINAUDI 1972


Ho letto per la prima volta questo libro a una decina d’anni dalla sua uscita quando ero uno studente di Architettura. Lo ho riletto molte volte e anche immediatamente prima di questa recensione del 2016, Anche dopo lo ho riletto e spesso ne ho letto e ne leggo frammenti.




Inno alla fantasia, stimolo ad innumerevoli combinazioni di ragionamento, evocativo, onirico e intellettuale, compendio provato delle future sei lezioni americane di Italo Calvino (Six memos for the next millenium Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità , Molteplicità, Coerenza).

 


Calvino, partendo dal Milione, immagina che Marco Polo discuta con Kublai Khan, re dei Tartari, e a questi narri delle città che l’imperatore di uno sterminato territorio non farà in tempo a vedere.

 Relazioni di viaggio. 

Un dialogo tra i due apre, e un altro chiude, ciascuno dei nove capitoli del libro. 

Il rapporto tra i due e il dispiegamento di informazioni, umori, preoccupazioni e ansie dell’imperatore sono quello che tiene insieme il romanzo. 

Questi dialoghi potrebbero esser letti a prescindere dal libro e costituirebbero, da soli, una narrazione compiuta. 

Il corpo di ogni capitolo, chiaramente, sono le città. In tutto cinquantacinque città, immaginarie, dal nome di donna. 

Siamo nella letteratura del gioco combinatorio.

 

La presentazione di una delle copie diverse che possiedo di questo libro (un Oscar Mondadori del millennio corrente) utilizza il testo di una conferenza che Calvino tenne agli studenti della Colunbia University, il 29 marzo 1983, su questo libro, undici anni dopo la sua prima uscita per Einaudi. 

Ne cito due brani soltanto.

“Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quello che il libro evoca, ma che vi si svolga (…) una discussione sulla città moderna. (…) Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dalle città invivibili”.

Già questo basterebbe, oggi, a rendere il libro indispensabile.

 

La città è infatti in ciascuno di noi come idea di comunità, di progetto, di sviluppo collettivo. 

Insita. 

Sia che la abitiamo sia che ne visitiamo alcune in giro per il mondo. 

Tuttavia ciascuno ha della stessa un suo vedere e una ricerca di risposte alle proprie domande. 

E case e palazzi e piazze a volte sogna, come quinte dei propri sentimenti notturni, o vagheggia e immagina.

 

Le 55 città di Calvino sono appunti, poesie in prosa, e di ognuna solo un modo, un aspetto, una caratteristica.

In più un indizio di legame, dichiarato ogni volta, tra la città e qualcosa: la memoria, il desiderio, i segni, gli occhi, i morti, il nome o il cielo.

Poi città diverse: sottili, continue, nascoste.

In base a questi sottoraggruppamenti ogni lettore, se vuole, può giocare a percorrere diversamente la lettura o la rilettura.

 

Se la città è (anche) un simbolo, infatti, nel libro ci sono cinquantacinque sfaccettature simboliche, punti di vista, desideri diversi rivolti alla stessa città e, da questo, un racconto smontabile e rimontabile come mattoncini Lego, come un film di Fellini (penso a Lavoce della luna), come la vita.

 

Le città invisibili possono essere un’unica città, o il modo di guardare la città; il modo di interrogare la città è il modo di interrogarsi come cittadini della vita. 

Sulla vita.

Allo stesso modo di come una esposizione di 55 quadri è unica ed insieme è unico ciascun dipinto le città di Calvino ti restano nell’anima.

Letto la prima volta al primo anno nella facoltà di Architettura; adoperato nell’insegnare Arte; citato a brani e frasi per motivare comportamenti civici coesi e coerenti. 

Le città invisibili è sul mio comodino da più di trenta anni: in continua lettura.


Kublai domanda a Marco: — Quando ritornerai a Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me?


— Io parlo, parlo, — dice Marco, — ma chi m'ascolta ritiene solo le parole che aspetta. 

Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella di uno scrivano di romanzi d'avventura. 

Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio”.

 

Una ultima dichiarazione, ininfluente: la mia città preferita, da sempre, ha nome Zemrude.

Marco Valenti

 






Quando nel duemilasedici una rivista di letteratura online che ritenevo prestigiosa, diretta da un editore in cui avevo riposto la mia totale fiducia affidandogli la pubblicazione di un mio romanzo, mi concesse l’opportunità di recensire uno dei libri più importanti della mia vita fui entusiasta e l’unico rammarico fu quello di restare nei quattro minuti di lettura. 

Oggi non esiste più l’Editore e il mio pezzo di allora è difficilmente reperibile. 

Poiché ci tengo molto lo ripropongo nel mio blog. 

Di Italo Calvino e delle sue opere si parla molto, ed è un bene, ma mai abbastanza.


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