marco valenti scrive

marco valenti scrive

29 settembre 2008

per dirla tutta


A dirla tutta è la ragione, il buon senso, il cervello.
Ma non è morfologico: è culturale.
Fin da piccoli ci insegnano a usare la testa per non farci male; sii saggio ci dicono, mettici giudizio, impara a valutare, ci spiegano come valutare bene. Cresciamo in un mondo di gente che ci fa vedere come arrivare in fondo superando gli ostacoli, evitando i pericoli di cui la vita è disseminata.
La stessa morte, peraltro inevitabile, o è un incidente o è una fatalità.
Fatti salvi gli eroi che, per contrappasso, riempivano le nostre fantasie di bambini.
Gli eroi, pochi, speciali; oppure i santi o, se non sono dei nostri, gli invasati.
Il cuore è un muscolo, e che pompi il sangue, l’istinto è delle bestie; i sentimenti si dominino.
Non solo: la ragione, la ragione comune, ci offre una marea di modelli, modelli di persone, esempi di integrità, comportamenti che confezionano la soluzione ad ogni problema. Così che la soluzione non la cuciniamo noi ma la compriamo surgelata al supermercato del pre-ragionato, al banco degli esempi da seguire.
Se a volte ci sentiamo pesanti e ci pare di trascinarci, sarà la bassa pressione o il cambiamento del tempo, o della stagione, e ci pigliamo due pasticche; oppure lo stress, e ce ne andiamo in vacanza oppure al cinema.
Intanto con i giorni passa la vita e noi sempre lì a ponderare, a valutare e a non buttarsi con il parapendio.
Tranquille operose formiche.

A dirla tutta è la ragione, il cervello, il buon senso.
Sono loro che ci fanno giudicare chi è differente da noi, che ci danno la patente per mettere i voti alle pagelle, che ci guidano nel giusto e ci danno il senso della misura e quello del peccato.
Chi si uniforma vive felice, mediamente, moderatamente contento.

Intanto la ragione fa volare basso il nostro cuore.

A volte tutta la vita è un’ode all’animale da cortile, è “t’amo pio bove”, elogio della norma, volo di voliera, rotta consueta desunta dalle mappe della tradizione.
Ci si attrezza per rotte consuete, per navigare con il bel tempo e stare in rada se è maestrale. Si comprano forbici con la punta arrotondata per non tagliarsi, perché non si sa mai, e il buon senso è l’oppio dei poveri.
Si fugge da chi è malato e potrebbe ostacolarci, esserci di impaccio.
Si scappa dagli amori impossibili e dai sensi di colpa e dal peccato.
Ci si sposa perché è ora di sposarsi.
Ci si fa una ragione anche di un suicidio.
Per fortuna o purtroppo la vita è un’altra cosa.
Le cose sono come sono e non basta dipingerle per cambiare loro il nome.
Succedono.
Accadono e basta, e tanto più sono vere quanto più a comandarle è l’anima piuttosto che la mente. A volte ci si fanno i conti.
Ora ci si può girare intorno quanto si vuole, prendersi in giro e falsificare la verità ma, se è vero, come è vero, quel che è vero, la realtà è la realtà, le cose sono - a prescindere da tutto - come sono: a volte lo scopri e quando lo sai ci si fanno i conti.
Perciò c’è pure chi non vuole saperlo e chi non lo saprà mai.
Vada come vada il cuore è un grido, è pazienza infinita, è di costanza e di dolore, è di gioia e di costruzione, è un tessuto prezioso.
Per fortuna o purtroppo, per fortuna e purtroppo tutto il resto è banalità del caso: più o meno attrezzati, ci si fanno i conti. O prima o poi.
L’anno prima, nel marzo millenovecentonovantasette, una cometa passava nel cielo e forse un po’ della sua scia innescava un groviglio di meccanismi che si andavano evolvendo e, per fortuna o purtroppo, camminavano.


Da “Cometa e bugie”
Nota: il romanzo “Cometa e bugie” è ancora inedito

20 settembre 2008

Prospettive

C’è una signora anziana, nella casa di fronte, che tutte le mattine trovo sveglia e già intenta nelle sue occupazioni, quando mi alzo. Appena corpulenta, di quelle forme statiche conferite dall’età; i capelli raccolti in una antica e anacronistica retina; un abitino blu, di cotone stampato a fiorellini bianchi, ogni mattina la signora si dedica al mantenimento del luogo in cui esaurisce la propria esistenza. Con piccole studiate mosse, e un’antica scopa di saggina – come non se ne vedono più – pulisce la strada di tutti, fuori dal suo cancello, asportando l’incuria e la distrazione altrui. Regala a noi tutti, in quei pochi metri di asfalto, una quota della propria dignità e del proprio esempio. Poi si vestirà, una gonna blu e una camicetta; indosserà le scarpe buone; prenderà la borsetta e il carrello della spesa e si recherà a piedi verso il supermercato. Rientrerà poco dopo, con gli acquisti freschi per la giornata, e si ritirerà a preparare le pietanze per la famiglia, già alle 9:00 sparendo dalla circolazione.
Piesse

18 settembre 2008

Teroldego

Roma, 26 maggio ‘98

Caro Luca,
finalmente una busta con qualcosa di tuo tra pubblicità, bollette esagerate e rotture di palle.
Era ora, amico mio: bentornato!

Prima di aprire la tua lettera, un’ora fa, ho stappato una bottiglia ad onorarne l’arrivo: un Teroldego Rotaliano, rosso di pronta beva, di compagnia e bel gusto.

Però poi ho aperto e letto.
Sto bevendo ugualmente, ma con meno voglia di festa, chiedendomi – e chiedendoti – cosa mai ti capiti.
Quando hai scritto da sobrio hai stillato gocce di veleno dalla penna, o di amarezza.
La questione dei furti nel bosco sembra di non facile soluzione; ti conosco però, e so che il teppista avrà ben presto il tuo fiato sul collo.
La tua tenacia.
Mi chiedo se da quelle parti ci sia ancora spazio per un’indagine senza uso di pentiti e delatori, tanto di moda oggi…
La mia curiosità.


(da “Un senso alle cose” – Boopen Editore – www.boopen.it)

Teroldego Rotaliano.
Rosso.
Trentino
Uva rossa, ha il suo naturale, e unico, habitat nel Campo Rotaliano, vasto altopiano luogo di numerose battaglie tra Longobardi e Franchi. Produce vini intesi, dal corpo importante ed adatti a grandi invecchiamenti. Da provare con polpettoni di manzo elaborati alle erbe. Bottiglie da non perdere: Teroldego Rotaliano Foradori.

5 settembre 2008

grecanico

GRECANICO
Vino bianco
(Sicilia)
Gradi: 12,5%

Pomeriggio lento e fastidioso in cui cerco di recuperare una notte di (troppo) poco sonno. Arriva ora di cena, l’umore è basso, mio padre bussa a cibo. Lo faccio attendere mentre metto su una pentola d’acqua a bollire.
La pasta consola.
Il cibo, in generale e di più quando riesce giusto, consola.
Parto con una pasta con verdure crude ma cambio idea. Acciughe a “sfragranarsi” con un po’ di vino bianco. Le guardo. Mi viene aggiungere capperi e olive, erbette. Poi pomodori tagliati a dadini. Peperoncino quanto basta. Il profumo promette.
Quando scolo manteco in una salsa spontanea e fluida. Decido mollica di pane per assorbire intingolo lento.
(tornerò sull’uso della mollica di pane vagamente abbrustolita e sui suoi usi taumaturgici; la mia parte siciliana lo richiede).
La pasta in tavola, piatto unico, mantiene le promesse e consola.
Modifica, migliorandolo, l’umore.
Mi viene in mente la umana simpatia del commissario Montalbano del maestro Camilleri e mi ci riconosco in toto.
Si gode.
È godimento intenso sia per i profumi e il sapore, sia per la soddisfazione di una improvvisazione ma ragionata ben venuta.
Il buon cibo migliora l’umore. So che mai rischierò anoressia: casomai adipe.
Piatti generosi per mio padre e per me e se solo avessimo coda si scodinzolerebbe di gusto.
La serata è migliore, molto migliore, di prima di cena.
Il vino trovato freddo di frigo va perfettamente.
Si sta alzando un giusto alito di vento e “chi se ne fotte” di qualche zanzara.
Godessero pure loro.
A voi breve cenno al vino.

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“Dai pendii di Giummarella, terra di tradizione di vite, un vino dal profumo fine ed intenso con note evidenti di agrumi e di frutta, dal sapore fresco ed elegante. Colore giallo paglierino.”

4 settembre 2008

piada ma Furlo: due



Dopo piadine, e vino, e caffè – voilà – il passo del Furlo.

Gola scavata nei millenni tra monti austeri e impervi.

Si passa un semaforo che, modernamente, alterna chi debba passare galleria scavate da Vespasiano (manco 100 anno dopo Cristo) per arrivare a una curva con piazzola.

Tutto qui.

Una curva e una angusta piazzola.

C’era un baretto ma, poi, hanno fatto la galleria ed è fallito.

Sono pochi a fermarsi, per lo più tedeschi e inglesi: italiani giusto noi.

Mi torna in mano la cartolina in bianco e nero comperata al posto di ristoro subito prima il passo.

Automobili dell’epoca, una Prinz addirittura, e una coppia affacciata al bel vedere.

Lui le cinge la vita, abito scuro; lei si lascia cingere, vestito subito sotto il ginocchio.

Penso che erano lì una cinquantina di anni fa a rimanere inconsapevolmente incollati in una cartolina in bianco e nero che, presumibilmente, gli sarebbe sopravvissuta.

Mi chiedo chi fossero e che diavolo ci facessero, tanti anni fa, al belvedere del Furlo sapendo che la mia domanda non avrà risposta.

Non può.

Come roba da rigattieri a riciclare ricordi non proprii.

Consideratelo un regalo e fermiamoci qui.

Eccoli.

Furlo e piada: uno


Paff… si: ho detto paff.
È quel bell’andare di rari, radi, momenti di idillio. Magari con sé stessi.
È quel bell’andare di quando un viaggio gira ed ha senso in quanto tale: in quanto viaggio. Perché c’è il gusto dell’andare, il piacere di muoversi solamente quando il viaggio offre opportunità.
È roba di andare, di senso del movimento, di movenza.
Ecco.
Sono qui, con la calma necessaria, a raccontare di una “movenza” che da Fossombrone ci fa decidere per il passo del Furlo.
Un passo, un semaforo, un tempo lento anziché una galleria veloce che congiunge due pizzi di montagna.
Si sceglie per la via lenta, per il gusto e null’altro; per l’idea di andare senza premura.
Non mi aspetta nessuno e, pertanto, voto compatto per il passo del Furlo.
Sembra un movimento, lento, di danza.
È un passo senza vetta, senza scontato bel vedere.
Si decide che Furlo sia.
Improvvisamente diventa roba di stomaco, di provvista auspicata, di ora tarda che sottende merenda o più.
Roba di appetito crescente e voglioso: uno stop diventa indispensabile.
Ecco che appare il “chioschetto” che tante gite risolve.
È questione di freno e rapidità di analisi.
Preso.
Il passo può attendere.
La fortuna arride non agli audaci ma dove può. Ne deriva una piadina ancora impastata e non comprata in un luogo unico e altrove da tutto.
Squisita.
Anzi, no: squisite…
Giacché alla prima segue, doverosamente, una seconda.
Per chi la conosce la piada consola; agli altri l’augurio che la conoscano.
Rifocillati partiamo per il passo del Furlo, basso, di gola e non di vetta: la pancia è piena e stabile alla guida.
Bello.
Per quanto detto della parte uno rimangono complimenti a chi ancora stende la piada a mano, un bis, una ricetta.
Non mi appartiene per estrazione, cultura, appartenenza…
Ma, Dio se è buona!

INGRADIENTI PER 5-6 PIADINE
500gr. di farina – 75gr. di strutto o di olio d’oliva – 25cl. Di acqua calda – 20gr. di sale… e non Q.B.! …stupore!
PREPARAZIONE
Fate un cumulo con la farina, create un foro al centro e sistemate lo strutto e il sale; amalgamate il tutto fino a ottenere un impasto non molto molle. (chi lo decide?)
Lavorate energicamente la pasta fino a renderla compatta e liscia, poi dividetela in palline grosse circa come un’arancia. Stendete con il mattarello le palline fino a farne dischi sottili. Pre-riscaldate la piastra a fuoco alto e poi passate alla cottura abbassando leggermente la fiamma…


Detto così… pare facile.
Quella piada (quelle piade) erano squisite.
Provate.

Una città per cantare


UNA CITTA’ PER CANTARE

Grandi strade piene, vecchi alberghi trasformati

tu scrivi anche di notte perché di notte non dormi mai,

buio anche tra i fari tra ragazzi come te

tu canti smetti e canti sai che non ti fermerai

caffé alla mattina puoi fumarti il pomeriggio

si parlera' del tempo

se c'e' pioggia non suonerai

quante interurbane per dire come stai?

raccontare dei successi e dei fischi non parlarne mai

e se ti fermi convinto che ti si puo' ricordare

hai davanti un altro viaggio e una citta' per cantare

alle ragazze non chieder niente perche' niente di posson dare

se il tuo nome non e' sui giornali o si fa dimenticare

lungo la strada tante facce diventano una

che finisci per dimenticare o la confondi con la luna

ma quando ti fermi convinto che ti si puo' ricordare

hai davanti un altro viaggio e una citta' per cantare

grandi strade piene vecchi alberghi dimenticati

io non so se ti conviene i tuoi amori dove sono andati

buia e' la sala devi ancora cominciare

tu provi smetti e provi la canzone che dovrai cantare

e non ti fermi convinto che ti si puo' ricordare

hai davanti una canzone nuova e una citta' per cantare

Emmevu:
Quando ho sentito per la prima volta Jackson Browne che cantava Along the road ho pensato – ne ero sicuro – che avesse scritto la versione inglese della canzone di Ron. Questo la dice lunga su quanto fossero approfondite le mie conoscenze di musica straniera.
Parliamo degli anni settanta (non che siano molto migliori adesso).
I settanta sono stati anni dove, come tanti altri liceali, strimpellavo la chitarra.
Succedeva sia in un piccolo gruppo (con cui suonavamo cover di Santana, Beatles, Deep Purple e via dicendo) sia le estati al Circeo, in comitiva.
Lì le scelte erano più acustiche e la voglia di cantare tutti e fare casino scivolava sempre fatalmente sulla musica italiana e sui cantautori. Non seguo tutta la musica italiana, né ora né allora, ma ci sono un sacco di cose che amo.
Anche un sacco di persone.
Una città per cantare ti prende subito per come parte e ti tiene con quell’andare romantico, un po’ dolente, e ti parla di viaggi e di allontanarsi a suonare, di una solitudine allora sconosciuta che però dava l’idea che crescere sarebbe stato una gran ficata. Ti parla di una vita che percepivi subito come altra rispetto a studio e famiglia: ce n’era abbastanza per adottarla.

Piesse:

Non ricordo quando sentii per la prima volta “Una città per cantare”, ma ricordo perfettamente di aver pensato – prime note – che fosse un’ottima cover. Oddìo: allora non si diceva così. Una versione, si diceva, la versione italiana (vetusto vèrtere…noi del liceo classico). Un’ottima versione, che restituiva bene quell’enfasi tutta americana delle distanze.
Una sola cosa, un solo verso, non mi andava giù anzi, (diciamola tutta) mi faceva proprio arrabbiare: è quando dice: - …convinto che ti si può ricordare… -. Pessimo. Pessima metrica, rispetto alle altre strofe. Pessimo italiano, con (posso?) quell’… “oggettivazione riflessiva di un passivo!”. Per di più isolato dall’arresto della musica che - metrica esatta - in quel punto tace. Quelle tre o quattro sillabe scandite a strascico… Bah!
Lottavo allora, piacevolmente e intensamente, con la prima comprensione di un certo rock sinfonico britannico, con la sua esattezza per me sconvolgente; oppure restavo affascinato dalla semplicità rozza ma intensa di Neil Young. Forse perché, alle prime mie armi con la chitarra, che ancora mi accompagna, era l’unico che riuscissi a riprodurre discretamente. Mi servivo delle ballate americane solo per le atmosfere struggenti ed evocative. In un’età in cui l’unica vera …evocazione possibile era quella delle speranze.
Tra gli italiani, come tutti i coetanei, frequentavo Battisti, senza ancora comprenderne l’inarrivabile spessore musicale; o la Premiata Forneria Marconi, quasi in solitudine. Ma diffidavo del resto. Snobismo d’ambiente e, solo in parte, una vena di distacco politico. Altri tempi.
Ron piombò in tutto questo dal nulla.
Ma gli occhi di Cristina che mi guardano e sorridono, mentre cantiamo ‘Una città per cantare’, insieme a tutti durante una festa; e quella sua mano appoggiata al mio braccio, primo incerto e fiducioso contatto, ancora mi sgomentano.
…………………………….

Highways and dancehalls A good song takes you far Your write about the moon And you dream about the stars
Blues in old motel rooms Girls in daddy's car You sing about the nights And you laugh about the scars
Coffee in the morning cocaine afternoons You talk about the weather And you grin about the rooms
Phone calls long distance To tell how you've been Forget about the losses, you exaggerate the wins
And when you stop to let 'em know You've got it down It's just another town along the road.
The ladies come to see you If your name still rings a bell They give you damn near nothin' And they'll say they knew you well So you tell 'em you'll remember But they know it's just a game And along the way their faces All begin to look the same
And when you stop to let 'em know You got it down It's just another town along the road
Well it isn't for the money And it's only for a while You stalk about the rooms And you roll away the miles Gamblers in the neon, clinging to guitars You're right about the moon But you're wrong about the stars
And when you stop to let 'em know You got it down It's just another town along the way


http://it.youtube.com/watch?v=BfY0K3O07ko

YouTube - Jackson Browne - The Road