Dopo un po’ capita.
Può succedere che ti venga
paura. Di dire troppo o di essere frainteso.
Venire capiti male è un male
moderno, figlio di tempi veloci e ignobili.
Poco nobili, se preferite.
Magari, perciò, ti viene
timore di sbagliare, di sembrare iperbolico o troppo di parte.
Come se la ragione fosse un
risultato di partita.
Come se contasse solo la
vittoria, il potere, la classifica.
Poi il timore aumenta
nell’attesa – perché si aspetta – e lievita come una torta in forno.
Aspetti,
con la consueta pazienza ed educazione, il turno di poter parlare.
Vedi che non tutti fanno la
fila e che, anzi, qualcuno straparla e tu sei lì – un po’ attonito – che
aspetti.
Qualcuno semplifica in modo
errato e rabberciato ma, urlando da ogni podio, riesce a persuadere.
E mentre aspetti il tuo
turno che non arriva ti fai sempre meno spavaldo.
Quando di rado arriva il tuo
momento non ti curi di essere perfetto ma esatto, preciso, circostanziato.
Perciò metti in fila dieci frasi che portino a tesi le tue argomentazioni.
Ti danno tempo per due frasi
e mezzo.
Cercano l’effetto e
ignorano, più o meno volutamente, il ragionamento.
Il ragionamento è lento;
l’effetto scenico è veloce come l’abbaglio.
Resta impresso come un fuoco
artificiale.
È fico.
Pare giusto quel che è veloce,
semplice, efficace ma piatto – uno speed date di cervelli – buono per slogan di
moda.
Ti ritrovi con un
ragionamento lento e articolato in tasca a non potere mai tirarlo fuori,
la paura aumenta.
Amo la lentezza come
modo e detesto la comunicazione come
valore: ho quindi tutte le ragioni per essere timoroso.
Timoroso e sospettoso;
sospettoso e depresso; depresso e
sconfitto da un modo e da un tempo che non mi appartiene e che porterà
male al raziocinio che dovrebbe governare la nostra esistenza democratica.
Alla fine guadagni il palco.
Silenzio in sala.
“Siete tutti migliori di
me!”.
(Esce dalla comune).
Sipario.