le cose ci sono, sono lì a rispondere ai nostri sguardi più o meno sicuri, alle domande che non facciamo e nemmeno sappiamo, a salvarci e a condannarci: sempre e pur tuttavia solo cose.
Sarebbero chiare se noi non fossimo così confusi. Non sono le cose a comandare ma l'atteggiamento che abbiamo noi di fronte ad esse. Come ci poniamo, come scegliamo se parlare o meno e cosa dire e cosa tenere per noi e non condividere.
Cosa lasciare andare.
Non so perché si chiami così e, probabilmente, è un nome con poco senso logico: ma se nonna Enza la chiamava in questa maniera non c’è nome diverso per chiamarla. Non vi pare? Ripropongo la ricetta perché spesso mi viene chiesta. Il vino ci sta tutto. Spaghetti alla milanese. Sugo rosso semplice, pochi odori, niente soffritto. Acciughe invece del sale. A parte, in una padella di ferro, mollica di pane secco (pan grattato per chi non ha tempo di grattare) ed abbrustolirsi in un po’ d’olio in cui due acciughe si sono “sfragranate”. In Sicilia la mollica così si usa molto: l’adoro. Origano se volete. Una punta di pecorino grattugiato se credete. A pasta scolata si condisce e si aggiunge la mollica come si farebbe col parmigiano. Consolante da morire.
Vino Orvieto classico Botti del vino di Orvieto, città papale, venivano inviate regolarmente alle mense dei prelati e dei nobiluomini di Roma; e poichè i donativi erano allora mezzi comuni per garantirsi la benevolenza di potenti protettori, la città si preoccupava che la produzione fosse notevole e la qualità del prodotto eccellente. Uve: (in percentuale decrescente) Trebbiano toscano, (Procanico Biancone) Verdicchio (Verdello) Canaiolo (Trupeccio) Grechetto. Colore: Giallo dorato chiaro Sapore: delicato caratteristico di uve infavate, spesso abboccato e talvolta anche amabile (o secco) fresco leggermente amarognolo pieno vellutato. Alcolicità: 12° Acidità: 7% http://it.wikipedia.org/wiki/Orvieto_(vino) Mi ci sono, alla Montalbano maniera, consolato… “arri creato” (pure questo termine è siculo); mi ci sono ancorato di fronte a pensieri fumosamente tristi per entropia nei confronti dei dolori altrui.
Quella spocchia con cui guardiamo tutti dal basso all’alto e di cui ci scusiamo, sembriamo scusarci, noi che abbiamo in casa un guaio; quello sguardo limpido che, in realtà, cela un malcontento e quella sufficienza, quando delicatamente diciamo “no grazie: non posso venire” e il nostro impegno è accudire indefinitamente il congiunto malato; quel fastidio mascherato di fronte alla pietas facile di chi non sa, non saprà mai e finge, pur tuttavia di capire.
Questi siamo noi.
Quelli che vivono una vita solo in apparenza normale ma nella realtà dello scandire delle ore minata infinitamente dal dover prendersi cura del congiunto malato terminale di Alzheimer (nel mio caso).
Vi guardiamo con alterigia spocchiosa dal basso in su.
In fondo, ci rendiamo conto, vi stiamo un po’ sulle balle.
Con la nostra pretesa di essere normali e la nostra necessità di mettervi sul nostro stesso piano, di darvi il nostro punto di vista.
Quel punto di vista pratico e così poco alla moda!
Il nostro punto di vista: mio dio che orrore!
Poco stile.
Già.
Il malato se ne è andato, irreparabilmente.
Siamo qui a provvedere alle sue sembianze e pretendiamo di mantenere rapporti sociali senza pietirli.
Sta male. Sta peggio. Non controlla più l’urina. Stanotte è bollente e pare cuocere ed è domenica notte e sono solo. Domani e lunedì e devo andare al lavoro o trovare il modo per non andare e badare a lui ancora un giorno e non so come fare.
Solo un esempio e solo l’ultimo in ordine di tempo e so che non sarà l’ultimo.
Altri vivono scegliendo Chanel e sono brillanti e sardonici e ironici.
Oppure clicchiamo su “forse parteciperò” a tanti e tanti incontri ai quali vorremmo partecipare.
Ma come? Non vai? Daaai… è bellissimo! Come puoi non andare?
Sorridiamo e, spesso, ci defiliamo con quel poco di eleganza che ci resta, con quella dignità residua del radersi, del farsi il nodo alla cravatta, del continuare a recarsi al lavoro e dell’insistere, pervicacemente, a voler vivere malgrado le attenuanti, non generiche, di avere l’Alzheimer in casa.
A volte interagiamo e l’indifferenza, per tacer della sufficienza, ci ferisce come a grandi ustionati fa male anche un raggio di sole al tramonto.
Tuttavia interagiamo.
A volte ingoiamo rospi e continuiamo a interagire come niente fosse.
Faticosamente costruiamo vita attendendo interesse di vite altrui.
Un giorno, non sappiamo quando né come, ci arriveremo, saremo soli, vuoti di Al.
Quel giorno vedremo chi ha compreso, chi ha provato a immedesimarsi, chi ha provato ad affrontare regole di ingaggio profondamente diverse dal normale e chi, invece, ci ha trattati con quella diffidenza, o ignoranza o indifferenza, o – peggio di ogni altra cosa – come disabili noi stessi solo perché abbiamo a che gestire un disabile.
Magari ci ha un po’ schifati.
Mentre quel cavolo di giorno si avvicina irreversibilmente la mia alterigia vi guarda, sopracciglio alzato e sguardo diritto, dal basso in su.
Magari, banalmente, ci avrei tenuto e, ancora banalmente, non mi hai saputo tenere sufficientemente a freno.
Capita.
Poi, tanto, so che non posso non farcela. p.s. : questo post è del 2010 ma certe cose vanno rammentate.
Con la diligenza propria del buon funzionario, leggo le istruzioni da seguire in caso di incendio, affisse sulla porta dell’ascensore del mio ufficio ad ogni piano. Non riesco ad evitare di rileggere più volte il trafiletto inerente l’eventualità che parte del piano sia invaso dal fumo. Prima di fare alcune considerazioni al riguardo ve le trascrivo fedelmente,
SE LE VIE DI FUGA SONO INVASE DAL FUMO: · Rientra nella tua stanza chiudendo bene la porta, sigilla la porta e le griglie di aerazione con indumenti bagnati per impedire il passaggio del fumo e apri la finestra. · Segnala ai soccorritori e agli addetti all’emergenza la tua posizione.
Questa la prosa. Ho provato a ragionarci un po’. Secondo l’estensore delle norme di comportamento riportate, qualora dovesse capitarmi che, uscendo dalla mia stanza per fuggire, incontrassi del fumo dovrei, innanzi tutto rientrare nella mia stanza. Forse valuterei l’ipotesi di oltrepassare la barriera fumogena e precipitarmi per le scale: questa ipotesi è resa ancor più valida dalle oggettive difficoltà a seguire le altre indicazioni che seguono. Dopo aver chiuso, bene, la porta (di legno e non ignifuga) della mia stanza dovrei sigillarla con indumenti bagnati: avete letto?
Alcune domande vengono spontaneamente: · I miei abiti sono sufficienti a sigillare la porta (per tacer dell’aeratore alto quanto il soffitto)? · La fessura sotto la porta potrebbe anche essere chiusa con la semplice pressione dei vestiti: il resto come diamine si dovrebbe sigillare? · Ma soprattutto: a meno di non essermela fatta sotto per la paura con cosa cavolo dovrei bagnare gli indumenti? A furia di sputi?
Per girare su due ruote nella mia città ci vuole attenzione e
un po’ di coraggio per via delle strade mal messe e della scarsa attenzione di
troppi.
Ciò non toglie la possibilità di osservare gli altri
guidatori e avere piccole manie o storielle, piccoli aneddoti o considerazioni,
su quanto capiti.
Nel tragitto abituale dal lavoro a casa ci sono alcune
persone che mi capita di vedere più volte e, tra gli scooteristi come me, tendo
a dividerli – a occhio – in affidabili, inaffidabili e indifferenti.
Un affidabile è un guidatore di motoveicolo che, grosso modo,
ha un comportamento simile al mio. Qualcuno potrà obiettare sul mio
autodefinirmi affidabile, me ne rendo conto: tuttavia un affidabile è pronto
nelle partenze, attento agli incroci, cerca di guardare anche oltre il mezzo
che lo precede immediatamente, rispetta i pedoni (almeno quando attraversano
sulle strisce pedonali), svicola ma non troppo, evita quanto più possibile di
passare col rosso anche se magari qualche arancione se lo fa, se è in sorpasso
effettua il sorpasso rapidamente, se è in corsia di sorpasso cerca di non
rallentare chi lo segue (esclusi missili e alieni).
Tra gli affidabili ieri, dopo un po’ che non lo incontravo,
ne ho rivisto uno.
Per la verità ne ho prima sentito il clacson – era dietro di
me e, evidentemente, aveva premura.
Mi sono lasciato sorpassare e ho lasciato
che mi facesse da “pesce pilota” per più di una decina di minuti nei quali ho
avuto modo, seguendone le mosse, di osservalo con attenzione.
Considero come pesce pilota un motociclista con
caratteristiche omogenee alle mie a cui posso lasciare l’andatura e l’onere di
prendere decisioni sulle traiettorie da seguire, seguendolo.
Mi rilassa un po’,
ogni tanto, averne uno.
Mi sono divertito, da terga, a studiare il mio ritrovato
pesce pilota.
Scooter Honda non nuovo, grosso e basso, dal clacson usato
molto più della bisogna, gomme cambiate di recente, qualche ruga del tempo alla
carrozzeria, niente bauletto.
Il pesce pilota è più basso di me almeno di una quindicina di
centimetri e indossa pantaloni jeans, scarpe da ginnastica vecchiotte e un
soprabito da scooterista (simile al mio ma non di marca conosciuta) e un casco
grigio.
Ha cosce grosse ma, soprattutto, è grosso di torso, largo: è più largo
di me parecchio.
Isolato dal contesto, dagli altri automezzi e guidatori,
ritagliato di per sé, sembra un po’ una immagine deformata di certi specchi,
che non restituiscono le dimensioni esatte e ti allargano o – meglio ancora –
ricorda quegli scherzi che ti fanno gli schermi televisivi quando nel vedere un
film o un altro programma in onda cambi con il telecomando le impostazioni
dello schermo.
Lo stesso accade con le impostazioni dello schermo di un
computer.
Perciò seguendolo – e non conoscendolo – lo ho battezzato
“sedici noni”.