marco valenti scrive

marco valenti scrive

28 aprile 2017

dal basso in sù





Quella spocchia con cui guardiamo tutti dal basso all’alto e di cui ci scusiamo, sembriamo scusarci, noi che abbiamo in casa un guaio; quello sguardo limpido che, in realtà, cela un malcontento e quella sufficienza, quando delicatamente diciamo “no grazie: non posso venire” e il nostro impegno è accudire indefinitamente il congiunto malato; quel fastidio mascherato di fronte alla pietas facile di chi non sa, non saprà mai e finge, pur tuttavia di capire.
Questi siamo noi.
Quelli che vivono una vita solo in apparenza normale ma nella realtà dello scandire delle ore minata infinitamente dal dover prendersi cura del congiunto malato terminale di Alzheimer (nel mio caso).
Vi guardiamo con alterigia spocchiosa dal basso in su.
In fondo, ci rendiamo conto, vi stiamo un po’ sulle balle.
Con la nostra pretesa di essere normali e la nostra necessità di mettervi sul nostro stesso piano, di darvi il nostro punto di vista.
Quel punto di vista pratico e così poco alla moda!
Il nostro punto di vista: mio dio che orrore!
Poco stile.
Già.
Il malato se ne è andato, irreparabilmente.
Siamo qui a provvedere alle sue sembianze e pretendiamo di mantenere rapporti sociali senza pietirli.
Sta male. Sta peggio. Non controlla più l’urina. Stanotte è bollente e pare cuocere ed è domenica notte e sono solo. Domani e lunedì e devo andare al lavoro o trovare il modo per non andare e badare a lui ancora un giorno e non so come fare.
Solo un esempio e solo l’ultimo in ordine di tempo e so che non sarà l’ultimo.
Altri vivono scegliendo Chanel e sono brillanti e sardonici e ironici.
Oppure clicchiamo su “forse parteciperò” a tanti e tanti incontri ai quali vorremmo partecipare.
Ma come? Non vai? Daaai… è bellissimo! Come puoi non andare?
Sorridiamo e, spesso, ci defiliamo con quel poco di eleganza che ci resta, con quella dignità residua del radersi, del farsi il nodo alla cravatta, del continuare a recarsi al lavoro e dell’insistere, pervicacemente, a voler vivere malgrado le attenuanti, non generiche, di avere l’Alzheimer in casa.
A volte interagiamo e l’indifferenza, per tacer della sufficienza, ci ferisce come a grandi ustionati fa male anche un raggio di sole al tramonto.
Tuttavia interagiamo.
A volte ingoiamo rospi e continuiamo a interagire come niente fosse.
Faticosamente costruiamo vita attendendo interesse di vite altrui.
Un giorno, non sappiamo quando né come, ci arriveremo, saremo soli, vuoti di Al.
Quel giorno vedremo chi ha compreso, chi ha provato a immedesimarsi, chi ha provato ad affrontare regole di ingaggio profondamente diverse dal normale e chi, invece, ci ha trattati con quella diffidenza, o ignoranza o indifferenza, o – peggio di ogni altra cosa – come disabili noi stessi solo perché abbiamo a che gestire un disabile.
Magari ci ha un po’ schifati.
Mentre quel cavolo di giorno si avvicina irreversibilmente la mia alterigia vi guarda, sopracciglio alzato e sguardo diritto, dal basso in su.
Magari, banalmente, ci avrei tenuto e, ancora banalmente, non mi hai saputo tenere sufficientemente a freno.
Capita.
Poi, tanto, so che non posso non farcela.

p.s. : questo post è del 2010 ma certe cose vanno rammentate.

1 commento:

  1. In genere già è difficile comprendere il nostro prossimo. Avere congiunti malati terminali è un "pregio" di cui faremmo volentieri a meno ma credimi ogni malattia, ogni sofferenza attiene a chi deve conviverci in prima persona ed è certo, lapalissiano che solo chi è drammaticamente protagonista può sapere cosa significhi. Un abbraccio.
    Paboo

    RispondiElimina

Costretto al test di verifica dal proliferare di spam. Mi spiace. Spero molto in tanti commenti e spero che, a prescindere dal fatto che non vengano moderati da me, siano di buon gusto e vengano firmati. Buona lettura e buon commento a tutti.