marco valenti scrive

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13 gennaio 2020

mezza età




DECLARATORIA DELLA MEZZA ETA’


(Ripubblico volentieri qui 
un mio piccolo racconto del 2015, brevissimo).

Se ne accorse un po’ per volta.
Credo fossimo intorno all’anno duemilaquindici quando la cosa gli fu chiara, quando ci fece i conti, la razionalizzò, la metabolizzò e la digerì.

C’erano state delle avvisaglie.
Le modelle dei costumi da bagno erano diventate più giovani di suo figlio: altrettanto la maggior parte dei giocatori di football. Le acconciature di questi ultimi non gli piacevano e neanche la moda di ricoprire la maggior parte dei corpi di tatuaggi.
Per non parlare del piercing.

Aveva maturato capacità di elaborazione, anno dopo anno, e si era tenuto informato, aggiornato e vispo. 
Seguiva non supinamente la politica, l’attualità, l’evolversi delle idee e delle mode. Acquisiva spessore non richiesto. Consapevolezze non ostentabili.
Idee. 
Talvolta, timidamente, ideali.
Sapeva. In piccola parte, ovviamente, ma conosceva cose, fatti e antefatti. 

Tutto ciò gli dava convinzioni e capacità di argomentarle, nella vita, sul lavoro, on demand.
Quello che gli mancava era la domanda. 
Sapere qualcosa e non avere nessuno che te la chieda. 
Avere opinioni accessorie. 
Esserci e sentirsi trasparente, trascurato, non ascoltato, non richiesto.

In una riunione, in una partecipazione ad una decisione, in un consiglio, per un consiglio.
Sentirci considerato nulla. 
Avere una opinione non esprimibile su una gran quantità di cose, di fatti, di notizie. 
Sentir berciare in modo qualunquistico, piatto, con la tracotanza dei vincenti – giovani, belli e vincenti – e vedere altri suoi coetanei assentire.

Minoranza silenziosa, silenziata, minorata. Ininfluente. Così era lui, giorno dopo giorno, sempre di più.
Quale opinione su una politica, o sedicente tale, su un libro o uno scrittore o un poeta o un musicista (o sedicenti tali) avesse non era influente – e va bene – ma manco richiesta e quindi ininfluente ma anche inascoltata. 
Talvolta inascoltabile.

Essere se stessi senza essere riconosciuti. Nessuna riconoscenza e nessun desiderio di essere conosciuto.
Tutti sicuri, portatori di saggezza e di certezza e di verità.
Lui meno.
Idee chiare ma educate, perbene, senza alcuna voglia di gridare ma con un universo di cose da dire.

Gola piena e bocca chiusa.

Anche in certe riunioni di lavoro: vedeva il Titanic e vedeva l’iceberg ma se provava a dirlo non lo ascoltavano. 
Mai. 
Andava avanti nella considerazione di chi decideva: chi decideva le cose era sempre un qualche persona che diceva che il comandante era un fenomeno e la rotta sicura e felicemente e sapientemente tracciata. 
Si abituò a tacere gli iceberg. Meglio silenzioso che gufo.

Mica stava al timone.

Continuava a pensare storie e a scriverle, con coscienza e prudenza, masticando a lungo prima di introitare le storie che lui stesso creava. 
Di cento che ne pensava ad una o due dava seguito, le cullava, le lasciava danzare, e decantare, e purificare. Le metteva in discussione. Se le coccolava per poi stenderle con prudenza e con tutto il tempo che meritavano. Sceglieva il modo e il lessico per cantare ogni sua storia. 

La scrittura vuole tempo e amore.

Considerato antico come un controbuffet all’epoca dell’happy hour.

Poi, magari, parlava di ebook. Lì tutti, stranamente, erano per la carta stampata, magari profumata. Moderni con giudizio: tutti moderni su tutto tranne che sugli ebook. 
Modernità quando serve.

Era felice di avere delle idee. 
Convinzioni. 
Conquiste.

Disappunto nel non avere modo di raccontarle se non nelle sue storie, nei suoi libri, nei suoi racconti. Un cantastorie senza piazza.

Pensò che non era colpa sua se le automobili, serie dopo serie, peggioravano la linea. Pensò che erano progettate per infinocchiare una generazione più giovane di lui. Se una Range Rover pareva essere passata sotto un ferro da stiro non era un problema suo ma della povera jeep. Per dire.

Prese la scala e raggiunse il soppalco. 
Salì con attenzione – perché sulle scale si deve salire piano e scendere pianissimo -  e tirò giù una scatola pesante e voluminosa.
Ripose la scala; spolverò la scatola e la aprì.

 Sentì che gli arrivava un messaggio su whatsup. Ebbe un moto di insofferenza. Spense il computer, il modem, il  tablet, il cellulare.

Cercò il suo single malt preferito, torbato a bestia, e se ne servì un bicchiere generoso. 
Accese una sigaretta e fece un tiro lungo. 
Rovesciò il contenuto della scatola sul parquet.

Il suo ultimo manoscritto magari era in mano ad un giovanotto che doveva giudicarlo con la metà dei suoi anni e che, magari, trovava palloso Pavese (magari per sentito dire) e stravedeva per Murakami o per Banana Yoshimoto. Magari lo avrebbe trovato buono ma non abbastanza. fuori target.

Sorrise.

Una multicolore montagna di mattoncini Lego lo stava invitando a non pensare alla mezza età.
Pensò che il mondo e la mezza età potevano fare a meno di lui. 
Per un po’. 
Doveva decidere tra fare una casa o un aeroplano. Oppure un robot. Aveva tutto il tempo, mezzo pacchetto di Camel e mezza bottiglia di wisky.
Se avesse trovato i tetti rossi a trenta gradi e un po’ di finestre e porte degli anni sessanta sarebbe stata una villetta. Magari a elle. 
Se ci fossero stati abbastanza pezzi con le ruote un bel camion.



Una nuvola di fumo.

Odore di fresie. Per chi lo vuole sentire dal terrazzo in fiore. Silenzio. Silenzio e fresie.
La montagna di lego dispersa e appiattita con lentezza e occhio attento.

Lezioni americane. Calvino. La leggerezza. Il lego. Cominciare a separare i mattoncini rossi dagli altri, il primo colmo del tetto che appare e lo mette via, da un lato, aspettando le altre tegole rosse. 

Pensò che se lo avessero guardato in quell'istante, chino sui mattoncini Lego, non lo avrebbero potuto capire.
Troppo moderni per un controbuffet.

Un tiro. Un sorso. Un sorriso.
Un mattoncino sopra un altro. Clak.

Silenzio.



Bum.