Una storia di Natale
La stanza
era piccola, illuminata da una plafoniera al neon al centro del soffitto, senza
finestre.
Per un
momento si sentì soltanto il ronzio del termoconvettore, mentre le tre persone
presenti si studiavano con gli sguardi dopo che la prima parte della
discussione era finita.
La signora
era seduta al centro della stanza, le mani in grembo e le punte delle dita che
si accarezzavano con movimenti nervosi; l’uomo con i capelli brizzolati dietro
la spoglia scrivania di fronte alla donna aspettava che questa parlasse; il
ragazzo in divisa in piedi dietro la donna.
Il
ragazzo guardava l’uomo con aria rassegnata; l’uomo incrociò il suo sguardo,
giocherellò con una penna bic, poi fissò la donna che aveva il capo chinato e
infine l’oggetto.
L’oggetto
era sulla scrivania insieme a una lampada da tavolo, una pila di cartelline e
un foglio prestampato: su quest’ultimo alcune parti erano state riempite a
penna pochi minuti prima, con la bic.
Una
parete dell’ambiente era arredata con classificatoti di metallo. In un angolo
un appendiabiti con il cappotto dell’uomo e quello della donna.
“Perché?”
la voce dell’uomo era stanca. “Lei è
incensurata, è una signora di poco più anziana di me, veste con sobrietà, non
ha né un’aria eccentrica e nemmeno compulsiva. Non vive neanche in zona.
Perché?”.
Il
ragazzo sbuffò e alzò gli occhi al cielo. L’uomo se ne accorse e gli chiese di
uscire. L’avrebbe richiamato se ce ne fosse stato bisogno.
Uscendo
manifestò il suo disappunto chiudendo la porta non senza rumore.
L’uomo
fissò il volto della donna finché lei alzo la testa che teneva china e cominciò
a parlare. Una voce bassa per tono e per volume, parole lente, di manifesti
disagio e vergogna.
“Ho preso
l’autobus per venire qui. Pensavo alla convenienza. Avevo letto degli sconti
sul giornale. Vivo della pensione di reversibilità di mio marito. Devo aiutare
anche mio figlio però. In mobilità o in cassa integrazione non ho mai capito
bene. Sono quasi due anni. Poi c’è il bambino, mio nipote. Poi c’è il Natale.
Poi c’è la lettera a Babbo Natale e non rientrarci mai. Fare i conti e non
poterci rientrare mai. Ha cinque anni.” e smise di parlare.
L’uomo
disse che il suo figlio più piccolo, il secondo, aveva la stessa età.
“Una
lettera precisa. E quel robot. Quello lì”. La signora indicò la scrivania
dell’uomo. L’oggetto.
“Lo ho
visto e lo ho preso senza pensare. Ho sbagliato. Mi vergogno”.
Scese un
silenzio faticoso. L’uomo scribacchiava sui fogli poggiati sul tavolo.
“La
lascio andare, signora. Ci sarebbe la denuncia per furto: lo sa?”.
“Lo
capisco. Grazie”.
La aiutò
a indossare il cappotto, le aprì la porta. La signora fece per girare a destra
e rientrare nel supermercato. Il direttore, l’uomo, le disse che aveva fatto
suonare abbastanza sirene per quel giorno e la accompagnò all’uscita dei
dipendenti, a sinistra, in fondo al corridoio. Le porse la borsa che le aveva
portato e la salutò.
Restò a
guardarla mentre si allontanava a passi lenti. Pensò che si sarebbe girata. Non
accadde. L’uomo rientrò nel supermercato che dirigeva ormai da cinque anni.
L’età di suo figlio piccolo; l’età del nipote della signora che andava via a
riprendere il suo autobus.
La
signora seduta nell’autobus si asciugò le lacrime con un fazzoletto da uomo.
Bianco. Ci si soffiò il naso. Aprì la borsa per metterlo via.
C’era il
robot.
C’era un
biglietto scritto con una bic nera.
“A cinque
anni si deve poter credere a Babbo Natale. Auguri.”.
Ricominciò
a piangere. Pensò che era sempre stata sentimentale.
Auguri,
Marco
Valenti
Bellissimo. Grazie. Magari questo ci manca a noi cosiddetti adulti. Di non crederci più a Babbo Natale, e forse neanche a Gesù Bambino..
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