Si fa un gran parlare del
termine resilienza, mutuato dal mondo della meccanica, e lo si propone come
valore in ambiti totalmente nuovi.
La resilienza di una città,
o di un popolo, o di un individuo.
La capacità di resistere
alle sollecitazioni, alle avversità, e quella di adattarsi alle mutate
situazioni.
Tutto questo è considerato
sempre più come qualcosa di positivo, di meritorio, e si moltiplicano articoli,
saggi e convegni che lodano chi è resiliente e invitano tutti alla resilienza.
Francamente, nella migliore
delle ipotesi, siamo di fronte ad un fraintendimento.
A dirla brevemente
(certamente malamente se sono io a parlarne) è improprio e a mio avviso
sbagliato. Un abbaglio gigantesco.
Proviamo a metterla in un
altro modo?
Si sta dicendo che è bravo chi sopporta, chi tollera, si adegua a
situazioni più pesanti di quelle precedenti.
Ora io capisco che sia utile
essere paziente, tollerante, aperto, di larghe vedute.
Mi può star bene che
faccia male alla salute essere livorosi, serbare rancore, sbuffar sempre e
protestare su tutto.
Però…
Pensateci un momento.
Suvvia!
“State buoni se potete” lo
diceva San Filippo Neri e la capacità maggiore di adattamento la hanno topi e
scarafaggi.
Essere resilienti non è resistere (a Roma si direbbe che è “abbozzare”):
la resistenza è un’altra cosa.
Si resiste ad un sopruso, ad
una angheria, ad una offesa, però poi ci si organizza e si reagisce.
Magari non si deve per forza
fare rivoluzioni ma si reagisce per cambiare quello che ci ha ridotti a dover
essere resilienti.
Si combattono quelle mutate condizioni attorno a noi che ci
fanno mancare l’aria, ci costringono, ci
fanno star peggio.
O no?
A me questo elogio della
resilienza negli umani mi puzza di sonnifero e, anche se certamente non sono
tra i più svegli, invito tutti a rifletterci e a vigilare.
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